“Non facciamoci illusioni ... non saremo noi a cambiare il mondo,

ma il mondo non riuscirà mai a cambiare noi”

(J. Mabire)


sabato



Milano 03.07.1984 – Negli anni 1970 la chiave inglese “Hazet 36” era lo strumento preferito dei servizi d’ordine dei gruppi della sinistra extraparlamentare milanese. Un attrezzo di acciaio lungo mezzo metro, molto facile da reperire. Era la risposta ai gruppi neofascisti, forti e virulenti che spesso presiedevano zone strategiche della città. Moltissimi furono costretti a subire violenze, sfregi permanenti, paralisi e morte. Uno per tutti , Sergio Ramelli, atteso sotto casa da un commando di dieci uomini e colpito al cranio. Piazza San Babila rappresentava l’avamposto della destra estrema. Spesso gli iscritti del Movimento Sociale Italiano chiedevano l’aiuto dei Sanbabilini per il servizio d’ordine e per l’affissione dei manifesti durante le campagne elettorali. L’elemento di raccordo era costituito da Rodolfo Crovace soprannominato “mammarosa”. Robusto, originario del brindisino, sincero e generoso, fu adottato dagli studenti Sanbabilini come baluardo negli scontri di piazza. Nel febbraio 1972 fu inquisito per gli attentati delle Sam e per la sparatoria nei pressi del bar “Harris” ma invece di fuggire decise di restare a Milano partecipando anche a manifestazioni pubbliche incurante del mandato di arresto. Dopo tante vicende giudiziarie legate alla lotta politica, senza prospettive fu costretto a diventare factotum dello spaccio di sostanza stupefacenti nella zona di Lambrate. Aveva trovato rifugio in un appartamento di periferia, insieme alla compagna Gabriella Ciaponi, al quarto piano in un palazzo di via Pasto

La “democrazia” che uccide non si ferma mai.
All’esercito occupante non interessa quanti italiani vengono assassinati, l’importate che il popolo non alzi la testa.
Sono giovani coraggiosi che, seppur perseguitati difendono la libertà e gli spazi del Fascismo, lo fanno, contro i servi del capitalismo bolscevico e degli uomini in divisa, servi del capitalismo privato, Max Enguer, a tale proposito affermava: “Finché l’individuo in cambio di una immunità, d’una esigua ma sufficiente paga giornaliera, d’una uniforme che lo faccia apparire un poco di più di quel che crede di essere, è disposto a sparare sul prossimo, anche quando questi chiede i suoi sacrosanti diritti, l’umanità resta quello che la cronaca ci ha dimostrato e ci dimostra: schiava dei suoi istinti e senza nessuna possibilità di evoluzione”. 
Negli anni settanta a Milano, i giovani Fascisti erano costretti giorno dopo giorno a confrontarsi con l’ “Hazet 36”, una chiave inglese utilizzata dai servizi d’ordine dei gruppuscoli sovversivi, un attrezzo d’acciaio lungo quanto l’avambraccio. La provocazione bolscevica nei confronti dei valorosi giovani Fascisti si sintetizzava nello slogan, “Hazet 36 – fascista dove sei” scandito nei cortei sino alla nausea, e scritto con lo spray rosso sui muri della città. I sovversivi avevano scelto la chiave inglese, quale simbolo della loro servile e codarda attività in favore dello straniero occupante, nel tentativo di contrastare i Fascisti, allora forti e ferventi. 
Milano viveva una stagione cupa, tesa, in cui non si riusciva a tirare il respiro, la violenza rossa, in tutte le sue forme, aveva fatto il nido nelle strade e nelle piazze. Era un incubo distorto, allucinato in cui in molti casi gli studenti, giovani operai, sottoproletari tutti erano schierati, o da una parte o dall' altra. 
I giovani sovversivi, extraparlamentari e parlamentari, portava l' eskimo verde e le Clark, i Fascisti vestivano elegante, avevano le scarpe a punta e mettevano i Ray-ban. La contrapposizione era anche fisica, di luoghi. Nel Metrò di San Babila, stazionavano gruppi di Fascisti o genericamente di destra, in quei luoghi, allora, per i sovversivi era meglio non farsi vedere. 
Sovversivi e sindacati, oltre alle manifestazioni, rituali del 25 aprile e del primo maggio, scendeva in piazza in ogni pio spinto, in appoggio della politica dei governi (corrotti) di centrosinistra, o solo contro la presenza Fascista. 
In questo clima nasce e si sviluppa quella che nel linguaggio dei gruppi sovversivi si chiamava "la pratica dei cucchini". Cioè aspettare sotto casa la sera o il mattino l' avversario politico, il leader nemico, il gregario che a scuola si dimostrava troppo attivo, e pestarlo, cioè "cuccarlo". Una guerra sotterranea gestita dai servizi d' ordine comunista che costrinse i Fascisti all’autodifesa, dovevano fermare la violenza che mirava a spezzare le braccia, rompere teste, immobilizzare su carrozzelle. Da quel momento a morire non saranno solo i Fascisti. 
La forte contrapposizione spinge a concludere la stagione dell' Hazet, nel ’76, si verificano solo episodi sporadici. All' interno della sinistra extraparlamentare, dopo le azioni terroristiche delle Br e Prima linea, inizia una durissima autocritica sull' uso della violenza. Molti abbandonano la politica attiva, tanti altri scelgono la strada di autodistruggersi con l' eroina, qualche altro si uccide, molti, moltissimi, attraverso un supporto politico-istituzionale rientrano nella vita “borghese” di tutti i giorni, cercano un lavoro, riprendono a studiare, si laureano. Vogliono dimenticare. Non a caso gli arrestati negli anni a seguire (per reati commessi precedentemente) hanno un lavoro: medici, impiegati, insegnanti. 
I Fascisti, da sempre isolati, sono costretti a perseguire altre strade, almeno i più in vista in quegli anni, questo riguarda anche molti Sanbabilini i quali dimostrarono di non essere un semplicemente gruppo di giovani di destra che si incontravano in piazza San Babila, ma svolsero un ruolo decisivo nella storia della difesa dell’ideale fascista in Italia. 
Gli irriducibili, dimostrarono tutto il loro valore, contrastando da prima il vandalismo, e in seguito il terrorismo comunista che attaccava i giovani Fascisti (anticomunisti), impugnarono le armi, prima, per difesa personale, ed in seguito per garantire ai Fascisti il libero accesso all’istruzione pubblica, rendendo possibile l’ingresso nelle scuole, come pure nei luoghi di lavoro. 
Ormai fra i Sanbabilini c'è un doppio livello, gruppi della destra politica e della destra clandestina che ha bisogno di denaro contante per finanziare le proprie attività. 
Gli organi d’informazione cronicamente servili e bugiardi, riportano, citando quale fonte “la magistratura milanesi” che, tra quelli che il regime “democratico” definisce terroristi di destra e la malavita organizzata cera un profondo intreccio, ipotizzando persino che i Fascisti rifornivano i sovversivi del Centro Sociale Leoncavallo di grandi quantità d’eroina. Arrivano ad accusare i giovani più rispettabili e coraggiosi d’essere implicati con la “Banda Cavallini”, o segnalati da un pentito (Angelo Epaminonda), come accade ad Rodolfo Crovace, d’essere stato uno dei killer nella strage di via Selvanesco, dove il 20 giugno 84 venero giustiziati con un colpo alla nuca tre malavitosi. Accuse infondate, ma all’epoca utili, da sfruttare politicamente. 
Crovace, era giovane spavaldo, sincero, generoso, ritenuto il terrore dei sovversivi, capace di violenze che in quegli anni erano inevitabili per chi stava a destra.
Tante le vicende giudiziarie legate alla lotta politica, viene carcerato e scarcerato a piacimento della magistratura con accuse escogitate di volta in volta, viene persino accusato d’aver già nel ’72 partecipato ad una sparatoria davanti all’Harris bar di Milano, invaso dai bolscevichi.
Senza prospettive e senza alcun aiuto per trovare un lavoro di che vivere, Rodolfo Crovace, finì coinvolto nel tunnel della disperazione, per ultimo, il 19 gennaio 1984, era sfuggito al blitz della polizia, operazione che portò in galera una cinquantina di persone, i carabinieri dopo varie segnalazioni, settimane di appostamenti e pedinamenti, erano venuti a conoscenza che, se ne stava nascosto in un appartamento fuori mano di periferia (al Ticinese), al quarto piano di una casa anonima e popolare di via Pastorelli numero 4, interno 6, ospite di una donna, Gabriella Ciaponi, che viveva prostituendosi. La gente del palazzo probabilmente doveva pensare che l' uomo fosse il protettore della donna. 
Sono le 15,35 del 3 luglio ’84, quando alcuni uomini in borghese dell' Arma decidono di passare all' azione, si appostano, hanno già un piano: fermare la donna, costringerla a salire su in casa. 


I NECROFORI TRASPORTANO ALL' OBITORIO
IL CORPO DI RODOLFO CROVACE

La donna arriva tranquilla. Quando la bloccano non capisce, in ascensore comincia a gridare a squarciagola. E' l' allarme per Crovace, tre carabinieri entrano nell' appartamento (due locali, un ingresso e i servizi), dove la camera da letto aveva la porta chiusa, iniziano a sparare micidiali raffiche dalle loro armi, Crovace che, aveva una grande abilità nel maneggio delle armi, abilità che lo aveva portato nei verbali dei magistrati più volte, pur disponendo di una Beretta bifilare da quindici colpi (lo stesso modello in dotazione a carabinieri e polizia) risponde al fuoco con una Magnum 357 attraverso la porta della camera da letto, ferendo il più esposto degli spietati assalitori. 


A Rodolfo, pur non avendo scampo sia per lo svantaggio numerico, che per l’armamento, non dettero il tempo d’arrendersi, fu ucciso come una bestia da quei tre militari che esplosero decine di proiettili. Era rimasto fulminato, dall' altra parte del corridoio, un colpo o lo aveva preso alla giugulare. Il suo corpo fu trovato riverso sul letto addosso, aveva soltanto un accappatoio, rosso di sangue, che lo copriva fino all' inguine. Per terra, un mare di acqua intrisa di sangue perché i colpi sparati dai carabinieri avevano addirittura spezzato le tubazioni della misera abitazione in cui viveva.
Nell' aria di quella calda giornata, portato via dal vento che spesso soffia a Milano, l' odore acre della polvere da sparo. Un odore che dal quarto piano è arrivato persino in strada, assieme alle grida disperate di una donna, la convivente di Crovace. Indirettamente, la responsabile della sua morte.
Rodolfo Crovace, è nato nel brindisino (Puglia) nel 1953, a 18 anni si trasferisce a Milano, dove si unisce ai giovani sanbabilini, da subito dimostra le sue capacità aggregative, divenendo, un mitico capo …. . Per anni si porta dietro il soprannome di Rudy "Mammarosa", un titolo più che un nomignolo, una qualifica. Rodolfo, ormai abile pistolero, al momento della sua morte aveva a sua disposizione due auto, una Mercedes 190 color carta da zucchero e una Lancia Delta 1500 color bronzo, ma resta indifeso in quello squallido locale di periferia. 

MAMMAROSA HA APPENA RESPINTO INSIEME AD ALTRI 
UN ATTACCO DEI COMPAGNI DAVANTI AL MOTTA

MILANO PIAZZA SAN BABILA : 
AL CENTRO CON LA CAMICIA BIANCA RODOLFO CROVACE


Dal quotidiano “ Repubblica” del 04 luglio 1984 — pagina 14 sezione: CRONACA
UCCISO DAI CARABINIERI UN EX CAPO DEI PICCHIATORI NERI
MILANO - Da piazza san Babila ad una morte violenta sul letto di uno squallido appartamento di periferia, al Ticinese. Rodolfo Crovace, 31 anni, ex capo picchiatore delle squadracce fasciste durante gli anni della contestazione, ora capo di una banda di spacciatori d' eroina, è stato ucciso ieri pomeriggio da tre carabinieri che erano riusciti ad entrare nel suo rifugio, al quarto piano di un palazzo di via Pastorelli numero 4, interno 6. Uno scontro a fuoco micidiale, dove si è sparato a volontà: Crovace avrebbe sparato per primo, impugnando come un bandito del West una pistola, la
Beretta bifilare da quindici colpi (lo stesso modello in dotazione a carabinieri e polizia) nella mano destra e la Magnum 357 nella sinistra. Dalla camera da letto, a porta chiusa. I militi hanno risposto con le raffiche delle loro armi: uno è rimasto ferito. Il colpo sparato dalla Magnum gli ha fracassato un braccio, il proiettile dopo aver spezzato l' osso, è penetrato nell' anca. Dall' altra parte del corridoio, Crovace era già morto: un ultimo colpo lo aveva preso alla giugulare. E' rimasto fulminato, il suo corpo grosso come quello di un toro riverso sul letto. Addosso, aveva soltanto un accappatoio, rosso di sangue, che lo copriva fino all' inguine. Per terra, quattro dita d' acqua. Nella sparatoria, qualche proiettile aveva spezzato i tubi delle condutture. Nell' aria di questa giornata calda, portato via dal vento che spesso soffia a Milano, l' odore acre della polvere da sparo. Un odore che dal quarto piano è arrivato persino in strada, assieme alle grida disperate di una donna, Gabriella Ciaponi, la convivente di Crovace. Indirettamente, la responsabile della sua morte. Una morte in sintonia con la fama del personaggio, alla ribalta fin dal ' 71 per dei pestaggi e nel ' 72 per una sparatoria davanti l' Harris bar di Milano. I carabinieri da tempo erano sulle piste di Crovace, che tutti conoscevano come "Rudy" nell' ambiente della droga e che per anni si era portato dietro il soprannome di "Mammarosa", un titolo più che un nomignolo, una qualifica che nel giro di qualche anno lo aveva portato in cima alla piramide della banda guidata da Libero Prudente, fratello di "Tonino", ucciso con altre sette persone nel suo ristorante "la strega" di via Mencucco, il 3 novembre del 1979. Una data storica per le cronache cruenti della mala milanese; da quel giorno infatti, si ruppe una sorta di "tregua" che aveva per anni congelato vendette ed esecuzioni, scontri fra gang e decimazioni. Quel sabato sera, infatti, vide riaccendersi la guerra per il controllo del mercato della droga. Cinque anni di omicidi, quindici soltanto negli ultimi quattro mesi, tre morti sono storia recentissima, l' alba del 29 giugno, ammazzati per incutere terrore agli avversari. Un eccidio che deve avere convinto gli investigatori ad accelerare i tempi per catturare qualche "pesce grosso" delle varie organizzazioni, per evitare che lo scontro fra le bande si allargasse a tutta la città, coinvolgendo anche altre frange della malavita rimaste finora estranee al grande duello che vede il clan dei pugliesi legato a Prudente e per sgominare il clan dei catanesi capitanato, a Milano, da "Angiolino" Epaminonda. Magnum 357 ha già forato la porta della camera da letto, ferendo il più esposto dei militari. Una reazione esagitata: non poteva arrendersi "Mammarosa"? Non aveva via di scampo. Sparando, non poteva illudersi di sfuggire a chi era in vantaggio numerico, nemmeno fidandosi della sua abilità di pistolero. Un' abilità che lo aveva portato nei verbali dei magistrati più volte: tanto è vero che il 19 gennaio scorso era sfuggito al blitz della polizia, operazione che portò in galera una cinquantina di persone, fra le quali un boss, don Ciccio Scaglione, il "re" di Quarto Oggiaro, e il superiore di Crovace quel Libero Prudente che al Giambellino controllava chi era "importante". Ma le forze dell’ordine erano già da tempo sulle sue tracce. Infatti dopo settimane di appostamenti, segnalazioni e pedinamenti decisero di passare all’azione. Verso le quindici e trentacinque del 3 luglio 1984 fecero irruzione nell’appartamento. Un violento scontro a fuoco. A cadere sul selciato fu proprio Rodolfo Crovace, 31 anni, mentre era in bagno e in accappatoio raggiunto alla giugulare. Il suo corpo fu ritrovato in una pozza di sangue e acqua. Infatti durante l’incursione alcuni proiettili provenienti dalle armi in dotazione alle forze dell’ordine avevano perforato e tranciato i tubi delle condutture."importante", come sottolinea Achille Serra, capo della Mobile. Prudente e Scaglione non erano nemici. Crovace era il braccio violento della banda del Giambellino. Come don Ciccio, proprietario di una lavanderia a Milano e di una trattoria a Garbagnate, viveva in una villa superprotetta.
Così, ieri pomeriggio, verso le 15,35, alcuni uomini in borghese dell' Arma decidono di passare all' azione. Dopo settimane di appostamenti, dopo varie segnalazioni e pedinamenti, erano venuti infatti a sapere che qualcuno "di quelli che contano al Giambellino" se ne stava nascosto in un appartamento fuori mano, al quarto piano di una casa anonima e popolare, presso una prostituta. Due auto, a dispozione del misterioso individuo. Una Mercedes 190 color carta da zucchero e una Delta 1500 color bronzo. La gente del palazzo probabilmente doveva pensare che l' uomo fosse il protettore della donna. E non faceva troppe domande. Al citofono, nemmeno un' indicazione: il cartellino del campanello in bianco. Ce ne sono tre come quello che serviva ad avvisare Crovace. Tre su ventiquattro; soltanto gli amici potevano sapere dove schiacciare. I carabinieri in appostamento, chi al bar "Picchio" chi davanti alle vetrine di un' agenzia immobiliare, chi col giornale piegato per nascondere la pistola, hanno già un piano: fermare la donna, costringerla a salire su in casa. La donna arriva tranquilla. Quando la bloccano forse non capisce, forse pensa che chi l' ha fermata sia qualcuno della gang di Epaminonda. In ascensore comincia a gridare a squarciagola. E' l' allarme per Crovace, che se ne stava in bagno. Quando i carabinieri entrano nell' appartamento (due locali, un ingresso e i servizi), la

CORRIERE DELLA SERA




NOVEMBRE 1970
Le nostre camerate non ci abbandonavano mai. (Foto di Cesare Ferri)